Lettera a un nipote

L’occhio attento, l’amore e la saggezza di un nonno possono comprendere cose che che un giovane nipote non ha ancora intuito. Un racconto in cui l’eredità di chi ci ha amato in vita è legata alla rivelazione di un intimo segreto che incoraggia a non vergognarsi mai di ciò che si è.

Tema: Alfa Romeo Grigia – Ambientazione: Anni ’50

Carissimo Andrea,

se stai leggendo queste parole, vuol dire che sono morto e il Dottor De Angelis, nostro notaio di fiducia da quasi cinquant’anni, ti avrà consegnato questa lettera insieme alle mie ultime volontà.

E’ a te, mio nipote prediletto, che voglio affidare una storia di cui nessuno è a conoscenza, ma che è strettamente legata a uno dei beni più preziosi che io abbia mai posseduto e che da oggi sarà tuo: la mia adorata Giulietta Spider grigia del ’55. Lei è l’unica auto che io abbia sempre tenuto con me in tutti questi anni, l’unica auto che non ho mai permesso a nessuno di guidare, e nemmeno di salirci o quasi, tranne che per il matrimonio di tua madre o in poche, rare altre occasioni.

Era l’agosto del 1955, e compivo 40 anni.

La grande guerra, una ferita ancora aperta nel cuore di tutti, stava gradualmente lasciando posto a quello che tempo dopo venne classificato come il “miracolo economico”: il Boom degli anni ’50 e ’60. Questo io ovviamente ancora non lo sapevo; quello che sapevo era che per la prima volta, dopo tanti stenti, dopo tanto lavoro e dopo tanti sacrifici, avevo un po’ di stabilità, una casa, una famiglia e qualcosa in più del semplice necessario per vivere.

Ero il più piccolo di 9 figli, 5 dei quali morti durante la prima o la seconda guerra mondiale; un altro rientrato quasi pazzo per gli orrori delle battaglie di quest’ultima e poi morto suicida. Le mie due sorelle, la zia Maria e la zia Luisa, si erano sempre prese cura di me come fossero seconde madri: io, unico fratello maschio a essersi salvato dalla leva perché nato con sole tre dita alla mano destra. Quelli dell’infanzia sono stati tempi difficili: ho conosciuto la fame e la miseria, ma anche la solidarietà fra coloro che, pur non avendo nulla, condividono tutto.

Terminato il conflitto mi sono sposato con tua nonna, una ragazza di 25 anni, di buona famiglia, ma non particolarmente bella e nemmeno troppo sveglia. Erano state le due famiglie a spingere per questo matrimonio, e noi, già considerati un po’ attempati per quei tempi in cui vivevamo, e in più io storpio e lei mediocre, avevamo accettato. Avevo ottenuto un impiego alla Provincia grazie al marito di zia Luisa, che militava nella Democrazia Cristiana, e così tiravo avanti la famiglia. Dopo meno di 10 anni di matrimonio avevamo già 4 figli. Tua nonna restava incinta con una incredibile facilità, e fra gravidanza, parto, allattamento, dormivamo come fratello e sorella per circa due anni a ogni nuovo bambino. A me non pesava molto: la mia attrazione per lei era minima, la stimavo molto più come madre amorevole che non come donna e compagna, ma sentivo una strana energia accumularsi dentro di me, che trasformavo in impegno sul lavoro alla Provincia e dedizione anche in un secondo lavoro presso lo studio di un ingegnere. Senza rendermene conto, quindi, riuscii ad accumulare più denaro di quanto avessi mai potuto immaginare, finché decisi che era arrivato il momento di farmi un regalo.

Da qualche tempo avevo stabilito di acquistare un’auto, la mia prima auto, con cui poter portare la mia famiglia in giro almeno la domenica. Così, pochi giorni prima dei miei 40 anni, mi recai in un salone, e lì cambiò la mia vita.

Forse non dovrei raccontarti certe cose, nipote mio: in fondo hai solo 20 anni appena mentre ti scrivo. Ma ti conosco, e credo di sapere di te forse più di quanto tu non voglia ammettere a te stesso. Sento che se c’è qualcuno a cui posso affidare questa storia, traendone beneficio entrambi, io dallo scriverti e tu dal leggermi, quella persona sei tu.

Ricordo ancora il giorno in cui sei nato, la gioia immensa nell’apprendere che ti avrebbero chiamato col mio nome. Ricordo tutti quei pomeriggi passati a giocare insieme, io già in pensione ma nel pieno delle mie forze di sessantenne, tu piccolo ciclone pieno di vita e di curiosità. Ricordo tutte le volte che correvi da me a raccontarmi ciò che ti era successo, a parlarmi di insegnanti, scuola, amici e ragazze. Ricordo quando cominciasti a diventare taciturno, a evitare gli sguardi, a essere evasivo quando ti si chiedeva che fine avesse fatto la fidanzatina del mese precedente. Forse fu allora che capiiNel tuo essere così ombroso e contemporaneamente in imbarazzo, qualcosa mi colpì e penso di aver avuto l’intuizione giusta.

Ecco perché desidero affidarti un pezzo del mio cuore, mio amato nipotino.

Quel giorno, entrando in quell’autosalone, la mia vita cambiò per sempre.

Guardandomi attorno, notai subito la mia magnifica Giulietta, un’auto che di certo si addiceva poco a un padre di famiglia; ma il mio cuore, vedendola, aveva perso un colpo. Cercai di distogliere lo sguardo, soppesando le altre auto che vedevo, poi mi diressi verso il fondo del salone.

Il proprietario, un uomo in completo nero e bretelle, sigaro in bocca e baffoni, era seduto a una scrivania e consultava carte piene di conti. Era una persona quasi sgradevole nei modi, e bofonchiò a un dipendente: <<Vai tu, Vittorio.>>. Fu allora che mi si avvicinò un uomo sulla cinquantina, alto e asciutto, dalle movenze eleganti, vestito di un completo grigio dalla fine manifattura sartoriale, con un sorriso cordiale e degli occhi che brillavano. <<Buongiorno Signore. Come posso servirla?>> mi chiese. Dentro di me si era mosso qualcosa, ma credevo fosse per l’emozione dell’auto. Solo dopo capii che fin dal primo sguardo dipendevo totalmente da quegli occhi luccicanti e quella bocca perfetta, che non riuscirono mai più a uscirmi dalla testa. Chiesi di acquistare un’auto per la famiglia, e Vittorio mi mostrò alcune utilitarie funzionali ma banali. Mentre mi illustrava le innumerevoli virtù delle 600 e delle 850 FIAT, con la coda dell’occhio non facevo che scorgere e bramare la mia bellissima Giulietta, verso la quale, infine, Vittorio mi condusse. Era un venditore coi fiocchi, e sapeva fare molto bene il suo mestiere. Mi propose un giro di prova, durante il quale, completamente dimenticate le auto familiari, fui inebriato dalle fusa di quel nuovo motore Alfa Romeo e ammaliato dalla voce virile e al contempo dolcemente suadente di Vittorio che ne tesseva le lodi. Non ricordo cosa disse, ricordo solo che se comprarla era nelle mie intenzioni oltre che nelle mie possibilità, uscii dal salone con la convinzione che quell’acquisto fosse addirittura un mio diritto. Tornai a casa con il contratto firmato. Mancavano un paio di documenti e il saldo dell’auto, e già l’indomani sarebbe stata mia.
Deve essere stato lui a intuire che il mio interesse non si limitava all’auto, poiché con una scusa iniziammo a frequentarci. Ci vedevamo al circolo e giocavamo a carte insieme, a volte commentavamo le ultime notizie sui quotidiani, altre volte ce ne stavamo in silenzio a fumare, immersi nei nostri pensieri, ma sereni di essere l’uno accanto all’altro. Era diventato il mio migliore amico, non c’era nulla che non raccontassi a lui, chiedendo il suo consiglio. Era scapolo, e prese a frequentare la mia famiglia e a condividere spesso i pasti con noi. Sulla Giulietta facevo salire quasi solo lui, per paura che i bambini o mia moglie la rovinassero. La lucidavo tutte le domeniche, e poi uscivo a fare un giro. Lui veniva spesso con me: mi raggiungeva a casa a piedi, poi andavamo fuori per le strade della città e rientravamo per pranzare con la mia famiglia.

Fu proprio una domenica mattina che avvenne: mi ero svegliato tardi perché non avevo chiuso occhio tutta la notte, dato che tuo padre Giacomo, l’ultimo nato, stava mettendo i dentini e aveva la febbre. Avevo appena iniziato a lucidare quel grigio lucente, molto in ritardo rispetto al solito, quando arrivò Vittorio, puntuale ed elegante come al solito. Gli dissi che avrei fatto tardi, che forse avremmo dovuto rinunciare alla nostra gita domenicale. Ma lui, col suo solito sorriso sornione e l’aplomb di un gentiluomo, si era sfilato la giacca, le bretelle, la camicia, e rimanendo in canottiera aveva iniziato a lucidare con me. Senza capire il perché, provavo vergogna per i brividi che mi attraversavano ogni volta che mi capitava di guardare le sue spalle larghe, o il suo petto muscoloso che tendeva la maglia intima. Vittorio percepiva il mio turbamento, ma non diceva nulla. Terminammo il lavoro in pochissimo tempo, così potemmo uscire per il nostro giro domenicale. Quel giorno, però, non scelsi io dove andare, bensì lui: mi condusse in un luogo isolato, poi mi chiese di fermarmi. <<Ascoltami attentamente, Andrea,>> disse con voce profonda e seria <<e rifletti prima di reagire a quel che sto per dirti. Non avrei mai fatto cenno a questo se non fossi completamente sicuro di ciò che sto per affermare e di ciò che provi tu e che provo io. So come mi guardi, e so cosa vuoi più di quanto non lo sappia tu. So che ci hanno insegnato che provare queste passioni è da malati o pervertiti o dannati e peccatori, ma ho imparato dalla vita che non è così, e che ciò che va veramente contro natura è tentare di opporsi a quello che siamo veramente. Non userò parole che potrebbero offenderti, quindi ti chiedo, in nome della nostra amicizia, di fare lo stesso. Siamo uomini adulti, capirò se verrò respinto. Ti chiedo solo, prima di farlo, di rifletterci e non lasciarti andare alle reazioni che questo discorso ti potrebbe creare a primo impatto. So che senti qualcosa per me dal primo momento in cui ci siamo incontrati all’autosalone, qualcosa che va oltre quello che tu hai mai provato per tua moglie o per qualunque altra donna. Sei disposto ad accettarlo e a comprendere ciò che questo significa?>> Disse, scendendo dall’auto con un movimento fluido e lasciandomi basito a guardarlo. Chiuse lo sportello, si appoggiò al finestrino e fissandomi negli occhi coi suoi occhi scintillanti, mentre non riuscivo a proferire parola, concluse: <<So che queste mie parole ti turbano, ecco perché adesso io andrò a farmi una passeggiata, così che tu possa riflettere. Se al mio ritorno non ti troverò più qui, capirò. Non preoccuparti per me, conosco bene la zona e sarò a casa in mezz’ora. Pensa piuttosto a quello che vuoi tu.>>. E con queste parole mise il cappello e si incamminò lentamente verso un sentiero della campagna circostante, le mani in tasca e la lunga sciarpa bianca che ondeggiava sfiorandogli il corpo.

Non so quanto tempo trascorse, ma la mia mente passava dal vuoto assoluto a un turbinio di emozioni e pensieri che mi martellavano la testa. Ti lascio immaginare ciò che quelle parole potevano smuovere nella mente di un uomo degli anni ’50, educato da una società bigotta e da una religione malevola e arretrata. Infine presi la mia Giulietta e me ne andai, correndo come un pazzo, confuso e forse risentito, certamente incredulo, per ciò che lui aveva svelato alla mia mente.

Tornai a casa, rispondendo alle domande di mia moglie in maniera evasiva che Vittorio aveva avuto un impegno improvviso e non avrebbe pranzato con noi. La domenica successiva non venne nessuno per la passeggiata con la Giulietta, e nemmeno quella dopo.

Il tempo passava. A mia moglie avevo detto che avevamo litigato per divergenze politiche. Lei mi incitava a fare la pace con lui, forse perché dopo quel giorno avevo ricominciato a tormentarla di notte, ma in maniera quasi rabbiosa, sfogandomi sul suo corpo mentre pensavo a Vittorio.

Ci evitavamo già da due mesi, quando un giorno, per caso, durante un giro in macchina, lo vidi uscire dalla sartoria con un completo nuovo, più bello che mai, anche se molto dimagrito. Fu quello il momento in cui la battaglia con me stesso cessò, e una strana quiete si impadronì della mia mente, per quanto il mio cuore battesse all’impazzata. Ero sulla Spider, avevo detto a mia moglie che avrei pranzato al circolo. Mi accostai a lui, che non mi aveva notato finché non mi ero avvicinato, e gli dissi in modo dolce ma risoluto: <<Sali, per favore.>>. Dopo un attimo di incertezza, aprì la portiera. Lo condussi in quello stesso luogo isolato in cui lo avevo abbandonato due mesi prima. Nessuno aveva detto una parola durante il tragitto e fu solo quando mi fermai che ebbi il coraggio di guardarlo: <<Non lo so,>> dissi, <<che cosa sono, e nemmeno che cosa voglio. Ma so che tu puoi insegnarmelo e so che questi due mesi senza di te sono stati un inferno.>>Lui capì.

Ci amammo per quasi vent’anni.

Poi un infarto se lo portò via, poco prima che tu nascessi.

Non provo vergogna per quello che è stato, poiché nessuno mi ha mai dato tanto quanto ciò che ho ricevuto da lui. Il mio unico rimpianto è non aver mai potuto vivere allo scoperto, costretti a nasconderci nell’ombra e amarci di nascosto. Erano altre epoche, e grazie al cielo oggi le cose stanno cambiando.

Io lo vedo, Andrea: la società sarà presto pronta ad accogliere quelli come noi. Sarà dura, ma non bisogna scoraggiarsi, ormai è quasi fatta, e tanti vivono già il loro amore allo scoperto.

Non sei solo, e non devi mai vergognarti di ciò che sei, perché io ti conosco e sei un ragazzo speciale, che diventerà un uomo meraviglioso.

Voglio che la mia amata Giulietta sia tua per ricordartelo sempre.

A me ha portato fortuna, e mi ha reso felice.

Sono certo e ti auguro che ne porti tanta di più anche a te.

Con tutto l’affetto che posso mai aver provato per te,

Nonno Andrea.

Questo articolo è stato scritto per la prima volta su Steemit a questo link:

https://steemit.com/ita/@piumadoro/lettera-a-un-nipote

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