La musica dell’anima
Kanon O-bāchan percepisce il mondo in forma di suoni e al suo animo delicato tutto attorno a lei arriva senza filtro donandole il privilegio di godere della bellezza intrinseca del mondo.
Tema: Musica – Ambientazione: Giappone
Quella mattina la signora Yoshino Kanon uscì di casa alle dieci meno un quarto, col suo carrellino della spesa e il passo cauto ma deciso dei suoi 84 anni ancora vivaci. Fece scorrere la porta della propria abitazione chiudendosela alle spalle, e, come ogni mattina, si soffermò un momento sul portico, socchiuse i piccoli occhi rugosi e annusò l’aria. L’autunno era iniziato da quasi un mese, ma il sole era ancora tiepido quando accarezzava il viso della dolce nonnina. L’odore di quel giorno di metà ottobre, però, preannunciava l’inizio dell’aria frizzante che avrebbe introdotto un altro inverno. La O-bāchan sorrise alla giornata, tendendo l’orecchio ai suoni del piccolo giardino in stile tradizionale che circondava la sua casetta, e il giardino, a suo modo, ricambiò il sorriso: il vento frusciava piano fra le foglie, facendole stormire, e la fontanella di bambù gorgogliava allegra mentre si abbassava e si rialzava ritmicamente riempiendosi e svuotandosi nel piccolo laghetto circondato dai ciottoli e dal vialetto. Qualche uccellino cantava piano, seguendo quasi il ritmo dei movimenti del fogliame. Quei suoni familiari che le davano il buongiorno la fecero fremere; sorrise di nuovo, increspando ancora di più il fitto reticolo di piccole rughe attorno agli occhi e alla bocca. <<Oggi succederà qualcosa di molto speciale.>> si disse Yoshino Kanon, e si avviò in strada.
Camminava ancor più lentamente del solito, quel giorno, godendosi ogni angolo e ogni scorcio che la via le offriva. Aveva sempre amato quel piccolo paese di montagna ai confini della prefettura di Saitama in cui era nata e cresciuta, e che nonostante tutto non aveva mai voluto abbandonare. A lungo i suoi figli l’avevano pregata di trasferirsi in città, dove loro lavoravano e dove avrebbero potuto più facilmente occuparsi di lei, ma la signora Yoshino Kanon era stata irremovibile: sarebbe morta lì dove era nata e vissuta, lì dove si era sposata e aveva allevato i suoi due bambini, lì dove era invecchiata: fra le montagne di quel piccolo vecchio villaggio.
Non che non fosse mai andata oltre, anzi. Suo marito, che se n’era andato sette anni prima, amava viaggiare e andare alle terme, quindi si era spesso ritrovata a ricoprire il piacevole ruolo di turista nelle più varie località del Giappone e degli stati esteri, sebbene le sue mete preferite fossero proprio le terme di montagna di cui il suo amato Giappone era pieno e dove l’acqua zampillava allegra e calda del calore dei vulcani.
“Le montagne hanno la musica perfetta”, pensava spesso. “Ma solo qui in Giappone. Non ne ho mai trovate altre dai suoni altrettanto sublimi.”
La signora Yoshino Kanon aveva fin da bambina una caratteristica particolare: percepiva ogni cosa e ogni persona attorno a lei come se fosse dotata di una propria musica, talora suoni semplici o indistinti, altre volte melodie complesse e, in casi eccezionali, splendide sinfonie. Era stata sua madre, maestra di shamisen, a trasmetterle questa connessione con la musica, dandole anche un nome che ne conteneva l’ideogramma. Purtroppo, però, aveva dimenticato di donarle parte del suo eccezionale talento per lo strumento, cosa di cui l’anziana signora era sempre stata del tutto priva. Per fortuna le era venuta in soccorso l’altra metà del suo nome, Kanon, composto appunto dagli ideogrammi “fiore” e “musica”, ed era diventata, ramo dopo ramo, una maestra nell’arte dell’Ikebana, il cui insegnamento aveva abbandonato quando il marito si era ammalato, una decina di anni prima, per accudirlo. Ricordava bene come la sinfonia armoniosa che accompagnava il suo caro vecchio nonnino aveva iniziato a cambiare, facendosi più tremula e incerta, poi perdendo brio e colore, e infine si fosse indebolita fino a spegnersi. Quando aveva iniziato a sentire il cambiamento, aveva smesso di insegnare l’arte della disposizione dei fiori e si era completamente dedicata a trascorrere quegli ultimi anni insieme a suo marito. Le mancava molto sentire la sua voce, condividere con lui le piccole cose della giornata, e a volte restare in ascolto di quei suoni decisi e rassicuranti che emanavano da lui, e che l’avevano tanto colpita facendola innamorare oltre cinquanta anni prima. Lui era l’unico a cui aveva capito di poter raccontare la sua caratteristica, che a quanto pare nessun altro aveva, senza temere di essere presa per folle. Lui le aveva creduto semplicemente, come se fosse del tutto naturale, sebbene non avesse mai compreso del tutto cosa la sua amata Kanon volesse dire. Gli era ben chiara, però, la grande sensibilità della moglie verso ogni forma di suono, che unita a un’intelligenza vivace e a una sensibilità d’animo fuori dal comune, la rendevano una donna empatica a tal punto da sembrare quasi che riuscisse a leggere il pensiero.
Non c’erano gioia o dolore, bugia o sorpresa che marito e figli e solitamente anche estranei le potessero nascondere. “Sentiva”, tendendo l’orecchio, quando il tempo cambiava, o quando i frutti erano maturi, o quando qualcuno aveva buone o cattive intenzioni a prescindere dalle parole che pronunciasse o da quanto bene sapesse fingere. Diceva che “ogni cosa ha il suo suono, e la melodia che produce pizzica le corde dell’anima. Se l’anima sa riconoscere e tradurre quel suono in emozioni e parole diventa facile capire chi hai accanto e cosa sta per dirti.”
Nonostante le sue doti, però, Yoshino Kanon non aveva mai voluto approfittarne per fare carriera in alcun campo, perché, diceva, “il denaro affievolisce i suoni col suo assordante tintinnio, oscura il fruscio delle foglie con quello della carta e capovolge il valore delle cose importanti zittendole col suo rumore.”
Era la musica il motivo per cui era rimasta in quel piccolo paese di montagna: la sinfonia che si sprigionava da quel luogo stesso, ormai a lei così familiare, Kanon non era mai riuscita a ritrovarla da nessun’altra parte, finché aveva compreso che solo lì avrebbe vissuto felice. Ed era così, a orecchio, guidata dalle armonie, che aveva trovato suo marito, aveva scelto la piccola casetta in stile tradizionale dove abitava e aveva preso tutte le decisioni più importanti della sua vita. Chissà, magari questo era un po’ quello che altri chiamavano “istinto”.
Fu forse istintivamente che si fermò ad ammirare un raggio di sole che colpiva gli aceri del bosco aggrappati alla china della montagna di fronte. O forse fu il suono allegro delle foglie in mutamento, che si vestivano vivaci di giallo e di rosso, donando l’intenso e cangiante spettacolo della foresta d’autunno a chi ne avesse voluto godere.
Era arrivata vicina ad un parco, dove le giovani mamme portavano i figli a giocare in quegli ultimi giorni di bel tempo. Si sentiva un po’ affaticata, così decise di sedersi su una delle panchine del parco, osservando a un tempo i colori del bosco e le altalene inutilizzate, che sembravano recuperare le forze in attesa dei visitatori pomeridiani. “I bambini sono a scuola,” pensò Yoshino Kanon, “peccato, hanno sempre dei suoni interessanti, puliti, ancora affilati, come la punta sottile e precisa di una matita di cristallo, che traccia una linea perfetta. Eppure mi sembra di udire un suono, qualcosa di altrettanto sublime. Assomiglia allo shamisen di mia madre, nostalgico e melodioso, ma ha la complessità decisa e rassicurante dell’animo buono di mio marito, e l’armonia completa e perfetta delle mie care montagne.” Si diceva Kanon, seduta su una panchina del parco, accanto al suo carrellino della spesa ancora vuoto, mentre ascoltava il suono del vento che piano soffiava, delle foglie che cambiavano colore, del sole che perdeva lentamente calore, dell’aria che si faceva briosa e frizzante, dei monti in cui era nata che celavano le sue care fonti termali dalla voce ampollosa. “Che meravigliosa sinfonia,” pensava Kanon, “non avevo mai ascoltato nulla di simile. Mi culla dolcemente attraverso i ricordi, mi accompagna accarezzando le mie emozioni, quasi conoscesse tutto ciò che mi è più caro. Chissà da dove proviene? E’ così dolce che mi induce a chiudere gli occhi e riposare, ancora un momento, solo un momento ancora. Mai avrei creduto di poter sentire qualcosa di tanto meraviglioso.”
E così pensando, socchiuse gli occhi, quasi in estasi, e si addormentò, ascoltando per la prima volta quello che in realtà era la delicata armonia della sua nobile anima, che, ormai paga della vita, lentamente abbandonava la sua anziana dimora per diventare parte del Tutto e fondersi felice nella melodia dell’eternità.